Marco Finetti

01 Giugno 2016

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Pagina iniziale Accademia della Trasformazione

PLAYBACK THEATRE: UN RITUALE PER I NOSTRI TEMPI

PLAYBACK THEATRE: UN RITUALE PER I NOSTRI TEMPI

Jonathan Fox

L’ideatore del Playback Theatre in questo articolo analizza il valore rituale del Playback Theatre come potente mezzo per restaurare la tradizione orale e per risvegliare quella sensibilità umana così minacciata dalla società moderna. Egli spiega come il Playback Theatre, attraverso le storie personali prima narrate e poi trasformate in teatro, favorisce un particolare tipo di dialogo che è espressione della verità popolare. Fox si sofferma poi sulla funzione dei diversi ruoli  di attore e conduttore e delle abilità richieste nei tre domini che costituiscono l’ossatura del PT: quello dell’arte, del rituale e dell’interazione sociale. L’autore porta inoltre numerosi esempi concreti  per supportare i suoi concetti e per dimostrare come il PT si configura come un rituale moderno di cura e di trasformazione.

A ritual for our time

Ogni attore di playback theatre (PT) è abituato alla sconcertante situazione che spesso si verifica al termine di una performance. Uno spettatore viene a porgerti la mano come per congratularsi e dice: “Ma dimmi, qual è lo scopo del playback theatre?”

Nel nostro intimo ci sentiamo infastiditi, forse perché una domanda così filosofica, quando ancora stiamo vibrando per l’ultima storia del narratore, è abbastanza fuori luogo. Purtroppo però, anche in momenti calmi, lontani dai riflettori del palcoscenico e dagli applausi, rispondere a questa domanda non è comunque semplice.

Di fatto il processo del PT non è facile da descrivere o da capire. Una ragione è la sua flessibilità: esso può essere adatto a molti e differenti bisogni specifici in campo educativo e della salute mentale, come anche a funzioni legate al teatro artistico. Questo significa che è un metodo che abbraccia le categorie convenzionali di teatro, psicologia ed educazione. Tuttavia la domanda è valida: qual è lo scopo del PT?

In questo scritto tenterò di elaborare una risposta. Affronterò il tema in primo luogo dal punto di vista della comunità, cioè nell’ottica dei gruppi che usano il PT sia in performance pubbliche sia in setting particolari (come una scuola, un luogo di lavoro o una comunità). Tratterò poi degli stessi “performers” e delle sfide che affrontano nel perseguire gli scopi di questo metodo.

 

Fili rossi

 

Vorrei iniziare con alcune storie.

La narratrice, una donna sui vent’anni, racconta di quando si è persa durante un trekking in Asia. Lei e la sua amica si trovavano lontane dal villaggio. Il buio stava calando e nessuno arrivava in loro aiuto. L’ambiente era ostile e insidioso. Non c’era nient’altro da fare che accamparsi in una specie di capanna dei pastori. La narratrice si era sentita infelice e colpita dalla sfortuna. Ma non successe niente di grave. Al risveglio le due ragazze si erano ritrovate in una macchia incredibilmente bella, circondate da rododendri, con montagne dalle cime innevate sullo sfondo. Il terrore si era trasformato in gioia; la minaccia in protezione.

La storia successiva a questa era ambientata a New York City. Una donna di mezza età racconta dell’incontro con la figlia di una conoscente di sua madre, una donna proveniente da un paese d’oltre Oceano, in Asia per essere precisi.

La narratrice (che aveva abitato a New York e che si era poi trasferita altrove) si aspettava di dover mostrare la città all’ospite. Temeva che sarebbe stato un pomeriggio noioso e fastidioso. La giovane donna invece si dimostrò non solo gentile e interessata, ma anche molto informata sulla città.  Infatti, col progredire della giornata, la narratrice aveva realizzato che in realtà era la giovane donna a guidarla nella visita. Doveva essere guida e invece era stata guidata. Al posto di dare aveva ricevuto. Era stata una piacevole sorpresa.

Voglio ora sottolineare alcune caratteristiche di questo processo di “storytelling”.

Queste due storie formano una specie di punto e contrappunto fra loro. Entrambe condividono il tema di una felicità inattesa: nella prima non esiste una guida o un soggetto che  procura questa gioia, mentre nella seconda questa figura viene giocata dalla presenza della giovane donna. Il contrappunto crea una sorta di dialogo. E’ come se nella prima storia il narratore stia dicendo: “ Talvolta ci sentiamo soli e persi e tutto finisce bene”. E il secondo narratore risponde: “Sì, può essere vero. Ed è anche vero che talvolta anche quando non siamo soli e persi, possiamo avere la sorpresa di trovarci guidati da uno straniero e scoprire nuovi piaceri in vecchi territori”.

E’ importante ricordarci come, in questo esempio, il processo emerso dalle narrazioni è stato spontaneo; il conduttore non ha sollecitato un particolare tipo di storia. Inoltre, anche se ogni narratrice ha raccontato la sua vicenda personale, le storie erano connesse a livello sociale. Questo “filo rosso”  può essere inteso come il contenitore di una sorta di saggezza popolare.

Un’altra caratteristica di questo processo è che solitamente non esiste un solo filo ma diversi fili. Per esempio, la prima narratrice ha una rivelazione in una luogo remoto dell’Asia (l’occidente incontra l’oriente); mentre nella seconda storia è l’Asia che, nella persona della giovane immigrata, viene all’ovest (l’oriente incontra l’occidente).

Nella prima storia, la gioia segue alla paura, alla delusione e allo sconforto, mentre nella seconda non c’è nulla di così drammatico (“anche un dovere noioso può trasformarsi in qualcosa di inaspettatamente piacevole”).

Nella prima storia il narratore è una giovane, mentre nella seconda storia il narratore ha un’età per cui potrebbe essere la madre della prima, (“L’avventura è per i giovani, sia inteso, ma anche quando si ha una certa età si possono ancora riscoprire simili gioie”). Nel PT questi messaggi sono comunicati attraverso la rappresentazione delle storie, attraverso il movimento, i colori, la musica e l’azione metaforica.

Una terza caratteristica deriva dal contesto. Abbiamo imparato che gli elementi della storia, oltre a parlarci della comunità in modo generale, spesso sono in relazione più specificamente agli aspetti contingenti del gruppo. In questo caso il pubblico era composto da studenti all’inizio di un lungo training laboratoriale. E’ abbastanza naturale per gli studenti, in questa fase, aver paura di sentirsi confusi e persi. Altri spesso temono che il corso possa rivelarsi monotono e prevedibile. In questo caso specifico il corso era di PT ed entrambi i narratori, ognuno a suo modo, parevano  ricordare ai loro compagni di avere fiducia nel processo di spontaneità.

Il modo in cui il filo rosso va oltre ogni ostacolo all’interno dell’evento del PT è così potente che come conduttore mi piace lasciare che il processo sia il più possibile libero, nel timore che, offrendo troppi suggerimenti,  io possa limitare il fluire spesso inconscio di  questa forma di dialogo ( ci sono casi particolari in cui agisco diversamente – vedi capitolo su: Conduzione sciamanica).

Ora voglio passare al secondo evento che ebbe luogo durante un workshop di PT sul tema del cambiamento sociale in USA.

C’erano dodici partecipanti, dieci bianchi e due afro-americani. Durante i primi due giorni le storie riguardavano bambini bianchi che vivevano la realtà di una terra divisa dal punto di vista razziale.

In una di queste storie, il narratore all’età di cinque anni assiste per al prima volta ad una ingiustizia razziale quando vede lo zio insultare il suo amato servitore. In un’altra il narratore racconta di quando, adolescente, si era trasferito da un sobborgo con la famiglia per andare lontano dai neri.

In seguito a queste storie, dietro incoraggiamento del conduttore, uno degli afro-americani parla. E’ una storia su suo nonno, nella cui casa in cui era cresciuto, e trattava in particolare della grande dignità del nonno e dell’alto tenore di vita della sua famiglia.

Nella storia c’è un grave episodio di razzismo, una pesante forma di ingiustizia subita dal nonno sul posto di lavoro. Ma c’è un tema più forte del razzismo. Infatti il narratore era venuto a conoscenza della sofferenza del nonno solo da adulto, molto tempo dopo l’accaduto, in quanto il nonno aveva voluto preservare il bambino.

Nello srotolarsi delle storie durante questo workshop sono presenti gli stessi elementi di contrappunto. Ciò che emerge qui è che, tramite la storia del narratore nero, abbiamo potuto sentire “l’altra voce”.

Una delle particolarità più forti del PT è quella di far sì che diverse voci siano ascoltate in un contesto di empatia.

Infine, un ulteriore punto da sottolineare. Le storie narrate dai bianchi non erano state storie di eroi e nemmeno di vittime. Piuttosto esse trattavano argomenti connessi al senso di vergogna per gesti compiuti da membri della propria famiglia, dolorosi da condividere e da rivedere. L’onestà insita in questi racconti consente un confronto su un piano di verità molto raro in una società umana dove i paesi e le loro istituzioni richiedono storie ufficiali di eroi.

Il PT onora la voce della gente, sia essa gioiosa o restia, trionfante o oppressa. Uno dei suoi scopi è permettere che queste voci siano ascoltate in tutta la loro ricchezza e varietà, prima che vengano rappresentate.

 

 

Restaurare la tradizione orale

 

Ciò che abbiamo visto fino ad ora in questi esempi è la presenza di uno speciale tipo di dialogo che si dispiega attraverso le storie dei narratori. Non si tratta di un dialogo ordinario, in quanto avviene attraverso le scene rappresentate sul palcoscenico. Troviamo più azione e meno parole che in un dialogo ordinario. In più, l’enfasi non è cognitiva.

I concetti possono essere impliciti nelle storie. Possiamo riuscire a leggere un messaggio o una morale in esse. Spesso, in seguito alle rappresentazioni, sorgono degli insight.

Ma, in definitiva, le storie di PT sono storie, con un’ambientazione, un carattere, una trama, un’immagine. E, come nelle fiabe, spesso il valore e il significato si rivela solo indirettamente. Per esempio nella storia sopra descritta, si sono messi in luce aspetti non solo riguardanti il razzismo e il pregiudizio ad esso legato ma anche aspetti attinenti il comportamento degli adulti nei confronti dei bambini ed il valore della dignità umana.

Questi aspetti ci riportano a contatto con la tradizione orale, radicata nella percezione sensoriale e nelle emozioni.

Il mondo professionale è teso a dare importanza ad altri valori. Il PT viene spesso visto con sospetto dalle istituzioni, perché può sembrare “frivolo”, non si focalizza direttamente sui problemi e non trova concrete soluzioni.

Oggi, dopo due decadi dalle prime esperienze di PT, c’è un clima più ricettivo sulla comunicazione di tipo olistico del PT grazie al fatto che gli studiosi hanno contribuito a ridefinire questo tema.

E’ ormai riconosciuto che l’interazione sensoriale con l’ambiente, il pensiero iconico, il bisogno di narrazione e l’unione fra pensiero ed emozioni sono aspetti fondamentali dalla mente umana. Così adesso il PT può essere apprezzato per la ricchezza con cui affronta il tema della comunicazione,

Dal momento che il PT impegna diversi aspetti della nostra intelligenza, esso penetra la nostra coscienza in un modo particolarmente profondo. Ci si sorprende per come si ricordano le storie che abbiamo visto nel PT. Ricordo la prima storia che ho condotto 30 anni fa. Il narratore era una persona che ho visto una sola volta in dieci anni, ma la verità contenuta nella sua storia, che riguardava il sentirsi persi e ritrovare la propria via, mi è ritornata spesso alla mente ed ha agito come una specie di linea guida presente lungo il corso della mia vita.

Il concetto di dialogo implica scambio fra pari,  e c’è un’implicita convinzione che ritiene che se nel PT riusciamo a parlarci ed ascoltarci in modo profondo, qualcosa di positivo potrà emergere.

In una performance di PT siamo tutti esperti, nel senso che abbiamo tutti delle storie che racchiudono delle potenziali risposte – ciò vale per il bambino più piccolo, per  l’adulto più umile e per l’anziano più saggio.

Il compito del conduttore del PT o del team è di creare un’atmosfera in cui la gente si senta libera di farsi avanti e raccontare.

Chi di noi è stato narratore, attore, spettatore di PT da lungo tempo conosce il valore di questo linguaggio comune. E’ una delle ragioni, io credo, per cui si tende ad avere poco turnover nelle compagnie di PT: il processo attiva una crescita personale così profonda che desideriamo rimanerne coinvolti.

Infine possiamo affermare che il PT permette il dialogo nella comunità attraverso  storie narrate, e che questo dialogo, pur contenendo tanti temi ed esplicitando spesso indirettamente i suoi elementi, fornisce un’opportunità all’espressione della verità popolare.

Il risveglio del mondo

 

Non sempre, ma abbastanza spesso per riconoscerlo come un fenomeno normale, la gente si sente bene dopo una performance di PT. Di sicuro gran parte del teatro è divertimento. Ma in questo caso il sentimento è più profondo, in quanto il soggetto della rappresentazione è il pubblico stesso e la sua vita nel mondo.

Il processo di identificazione nella propria storia e la testimonianza di quella altrui spesso porta verso sentimenti di rinnovamento comune.

Tale rinnovamento ha luogo a vari livelli. Il primo è individuale. Questo aspetto si può evidenziare prestando attenzione ai cambiamenti che si possono osservare nella tensione corporea del narratore durante la rappresentazione della sua storia. All’inizio sarà più o meno teso. Sarà ancora alla ricerca della cosa precisa che intende raccontare. Non avrà ancora abbastanza fiducia nel conduttore che, seduto al suo fianco, gli pone domande. Sarà intimidito dallo sguardo degli altri su di lui. Quando poi la rappresentazione comincia il suo tono corporeo cambia. C’è eccitamento e si nota un intenso investimento mentre guarda gli attori che si assumono il rischio di delineare un momento della sua vita. Poi, quando gli attori colgono una nota di verità,  riuscendo a catturare l’essenza di ciò che prima egli aveva cercato di esprimere, magari in modo imperfetto ed incompleto, segue un improvviso rilassamento, spesso accompagnato da un sospiro.  In seguito, dopo che la recitazione è stata completata, si nota uno spostamento finale del corpo e il narratore può cogliere dentro di sé la risposta empatica del pubblico. Il narratore ritorna alla sua sedia, in sala, in uno stato molto diverso da quando l’aveva lasciata. Probabilmente sta sorridendo (talvolta attraverso lacrime indugianti). Non è facile descrivere questo nuovo stato d’animo Egli è profondamente “colpito”.  Si sente “più leggero”.

Il secondo livello è sociale. L’esperienza di PT riduce il senso di alienazione che spesso caratterizza gli uomini della società moderna. Di fatto il PT esiste in una varietà di luoghi, da piccole a grandi città e in molte differenti culture. Ma, nonostante ciò, si può affermare che, in generale, sempre più spesso osserviamo come la gente si presenti alla performance e in contesti pubblici provando un senso di estraneità reciproca . Perciò c’è spesso una tensione nel pubblico e nei potenziali narratori, in quanto non si può sapere quale sarà il tema della performance  né come verrà trattato. Gli spettatori, per natura, sono accorti. E questa accortezza sarà presente anche in un gruppo preformato, come una classe scolastica o un gruppo di colleghi di lavoro. L’interazione sociale, che è una parte importante nell’esperienza PT, è tesa ad attenuare il timore di trovarsi tra stranieri, aiutando a sviluppare un senso di connessione.

Gli spettatori spesso si stupiscono per come sono in grado di condividere un’esperienza personale e significativa con persone che solo poche ore prima sentivano distanti. Il loro distacco si è trasformato in un’apertura a dialogare sentita reciprocamente, e più tardi, quando si scambieranno i commenti, spesso tale disposizione si tradurrà in un sentimento di gioia.

Infine, la grande sensualità del “live theatre”, con le sue luci, i suoni, le immagini e i ritmi, ci aiuta ad uscire dal nostro guscio e ci apre al mondo fisico intorno a noi.

Per quelli di noi che vivono in città coinvolti in questioni cerebrali e razionali, l’esperienza PT costituisce un risveglio dei sensi.

Prendendo in considerazione questi effetti sullo stato d’animo a livello individuale, sociale e ambientale, possiamo dire che, nel complesso, il PT focalizza l’energia individuale e di gruppo in modo tale che il pubblico è sottoposto ad un’esperienza di trance, così che spesso le persone si sentono contemporaneamente piene di energia e rilassate, con un senso di rinnovamento fisico e psichico. Si esce da una performance aperti e risvegliati nei confronti del mondo. Questo effetto non è diverso da quello che la gente ha sperimentato da tempo immemorabile dopo speciali cerimonie comunitarie. Dopo una performance di PT si riesce a sentire di nuovo la musica delle foglie sugli alberi, a vedere ancora la danza della luce del sole nell’acqua, a gustare il piacevole e supportivo contatto con gli altri, a trovare una nuova speranza.

 

 

Sulla soglia del nuovo

 

Possiamo facilmente immaginare altri tipi di attività che incentivano il dialogo, come un dibattito pubblico, una discussione di classe o anche una sessione terapeutica. E possiamo facilmente farci venire in mente altri tipi di esperienze rilassanti e rivitalizzanti come un gruppo di yoga, una danza in una stanza da ballo o una passeggiata nella foresta. Quello che non è consueto è un’esperienza che comprende tutte queste cose. Ciò è reso possibile nel PT dalla sua natura altamente drammatica.

Come paragone potremmo pensare a un matrimonio o a un funerale dei nostri tempi. Oppure a danze comunitarie di altri tempi che avevano lo scopo di preparare i cacciatori per la caccia, o i guaritori per imporre le mani sul malato. Questi tipi di rituale sono assolutamente seri e intendono produrre una trasformazione.

E’ luogo comune affermare che l’età moderna ha assistito ad un declino del rito e perciò molta gente oggi difficilmente conosce il suo potere. Per questo motivo il PT è spesso chiamato a svolgere un compito più limitato, come sviluppare l’espressività di adolescenti timidi o insegnare tecniche di team building ai manager di una società. Il PT può perseguire questi obiettivi ma, dal mio punto di vista, solo nella cornice del suo scopo più profondo legato al rituale.

Lo spettacolo di PT spesso inizia in modo piatto. Il pubblico, che non ha familiarità con questa forma teatrale e con il suo processo rituale, aspetta sospettosamente. Ma poco a poco, mentre il rituale si svolge e la gente inizia a coglierne il senso, le emozioni emergono, con l’inevitabile conseguenza che un evento PT pienamente avviato può dare forti emozioni. La musica suonerà un ritornello di caccia. Gli attori renderanno la scena con particolare capacità. Il conduttore userà le parole giuste al momento giusto. E improvvisamente un narratore si alzerà dalla sua sedia per raccontare una storia emersa da un angolo sepolto della sua anima. E questa storia farà alzare un altro narratore,  in un profondo nesso di emozione e memoria. Questo lento fluire dell’energia emotiva è una parte naturale del rituale.

Non tanto tempo fa, in Israele, ho condotto una dimostrazione di PT in una classe universitaria di operatori di comunità. Le condizioni della sala non erano stabili, la gente andava e veniva; c’era poco senso del decoro nell’affollato spazio della classe. Nonostante ciò, sono andato avanti. Lo spazio era stato sgombrato per creare il palcoscenico; sul retro erano state poste una fila di sedie per gli attori, che sarebbero venuti dal pubblico. Sulla destra del palco avevo posto due sedie, una per me come conduttore e l’altra per il narratore che il gruppo avrebbe prodotto.

In poco tempo lo spazio del rituale era stato sistemato; a mio modo avevo cercato di dargli un senso.

Ad un certo punto le mie parole sono divenute più formali, il loro ritmo più lento e cadenzato.

Il primo narratore uscito dal pubblico portò una storia quotidiana sul suo risveglio la mattina. Dei volontari dal pubblico la rappresentarono. Poi si fece avanti un secondo narratore e rivelò un segreto: era stato un estremista politico in un altro paese e aveva commesso atti violenti contro il regime illecito e repressivo. Ciò aveva messo a repentaglio la sua vita quando aveva vent’anni.

Nel particolare e preoccupante momento storico che Israele sta attraversando, caratterizzato dalla violenza del terrorismo causa di morti innocenti, la rivelazione fu di per sé potenzialmente esplosiva.

Il narratore, scegliendo di raccontare questa storia, aveva varcato il confine della normale accettazione e della sicurezza, nell’evidente speranza che la cornice rituale avrebbe potuto costituire un contesto di comprensione.

Come conduttore non ho esitato a proseguire con la rappresentazione della storia, nonostante  essa implicasse un assassinio. Sostenuti dal rituale, gli attori provenienti dal pubblico misero in scena questa difficile storia con tutta la pienezza che furono in grado di metterci, essendo per loro la prima volta che recitavano. Il solo fatto che si erano impegnati con tale disponibilità era stato un profondo segno di accettazione del narratore.

Inevitabilmente la reazione del pubblico fu prorompente; il contenimento del rituale fu determinante in questo particolare momento. Proseguimmo con molte sculture fluide per rappresentare le diverse reazioni dei testimoni.

La conseguenza fu un’atmosfera molto carica. L’esito avrebbe potuto essere caotico ma l’ordine mantenuto fra i soggetti con diversi punti di vista consentì alle persone, attraverso il rituale del PT, di ascoltarsi reciprocamente.

Il dialogo sociale si era creato a livello profondo, e il narratore, per la prima volta da quando era fuggito dallo stato di Israele, era riuscito ad aprirsi di fronte ad altri.

L’antropologo Victor Turner usa la parola “liminale” per descrivere come i partecipanti di un rituale varcano la soglia della normalità. I suoi studi in Africa lo hanno portato ad elaborare il concetto di “dramma sociale”, nel quale i problemi di  una comunità vengono trattati attraverso una cerimonia estatica. Per Turner i rituali, prendendo inizio da un ordine quotidiano, possono costituire un terreno fecondo per la creatività, all’interno del quale la collettività può espandere le sue potenzialità e superare i limiti fino al momento stabiliti.

Questo è ciò che è accaduto nella rappresentazione di Israele. Il narratore ha oltrepassato la soglia della rivelazione ed ha portato gli spettatori con lui in questo processo, in modo che il pubblico ha potuto guardare il pressante tema sociale della violenza del terrorismo da una prospettiva nuova, cioè quella dello stesso terrorista. Questo potere implicito del rituale del PT è dovuto al fatto che, nonostante la sua flessibilità, non si adatta agli stretti confini delle richieste delle istituzioni, che di solito vogliono essere sicure che lo spettacolo sia “leggero”, centrato sulla costruzione del gruppo e che vogliono evitare certi argomenti. E’ anche questo il motivo per qui alcuni gruppi di PT possono fallire, per la loro insufficiente capacità di elevare a rituale gli eventi drammatici.

Occorre molto tempo per crescere nella funzione di conduttore del rituale nel PT

I rituali di trasformazione, poiché sono in grado di produrre situazioni esplosive, non sono esenti da rischi. Se il  cliente che commissiona la performance coglie l’idea del potenziale drammatico del PT, che ne è l’aspetto fondamentale, vorrà essere sicuro che i conduttori abbiano le competenze necessarie per dirigerlo e contenerlo. Questa è un’aspettativa assolutamente appropriata.

Spesso, comunque, l’esitazione da parte del rappresentante di un’istituzione può derivare da timore delle emozioni che possono scaturire da un evento che si colloca ad un notevole livello di profondità.

Questo problema  può presentarsi con il  committente dello spettacolo, con l’istituzione, o anche con la comunità nel suo complesso, ma non, credo, con gli attori di PT.

Il PT può essere orientato a raggiungere obiettivi come quello, per dei giovani, di esprimersi più liberamente o, per dei manager,  quello di lavorare meglio insieme. Se il rituale drammatico fluisce pienamente, si ottengono benefici  anche per il gruppo.

Una concezione errata del PT, peraltro abbastanza diffusa, ritiene che la parte cruciale dell’evento PT si svolga prima della rappresentazione, nella fase di progettazione.

Bisogna sempre chiarire con le istituzioni e le organizzazioni che il PT può attivare emozioni e che può fornire solo indirettamente risposte ai problemi; che a tutti i presenti sarà data equamente voce e che c’è un grande potenziale creativo e di rottura nei suoi rituali.

Sempre più spesso le istituzioni ricorrono al PT in momenti  rituali, specialmente nei momenti di transizione.  Ne sono un esempio le sessioni di orientamento (eventi di apertura) ed i rituali connessi al pensionamenti (eventi di chiusura) Al PT si ricorre anche al manifestarsi di una crisi, quando c’è bisogno di un metodo potente ma che si propone anche come un forte e chiaro contenitore.

In diversi contesti e sempre più frequentemente succede che:

  gruppi di PT vengano chiamati a effettuare spettacoli per  comunità particolari a intervalli regolari;

  gli studenti di diverse scuole, come ad esempio quelli che si formano nell’assistenza sociale, si trovino, alla loro prima settimana di scuola, a condividere, attraverso il PT, le loro emozioni legate all’inizio del training, comprese le storie che riguardano i motivi che li hanno spinti verso l’assistenza;

– il dipartimento di una facoltà universitaria inviti un gruppo di  PT alla festa di chiusura dell’attività formativa;

– coppie sposate in crisi siano invitate a condividere le proprie storie nel PT, ciascuna offrendo all’altra una nuova prospettiva;

– performance mensili di PT aperte a tutti siano presentate da numerose compagnie in giro per il mondo e costituiscano momenti di incontro regolare per le persone e le comunità in cui, attraverso questo metodo, si condividono aspetti della propria vita.

Questi e molti altri esempi attestano l’efficacia del PT nell’aiutare i gruppi, attraverso una modalità positiva, ad imparare dal passato e guardare verso il futuro.

La triade dei “performer” di PT

Aree di abilità per il playback theatre

Zona del buon playback theatre

 

Torniamo ora ai praticanti di PT. Jo Salas in “What is ‘good’ playback theatre” sostiene che il PT è arte e che possiede i requisiti di tutte le forme d’arte, ovvero trasmette significati attraverso un disegno coerente, è caratterizzato da integrità della forma, originalità e abilità nell’esecuzione. Con questo spirito molte compagnie di PT lavorano duramente sulla “teatralità”, sulle dinamiche interpersonali, sull’uso delle metafore, sull’improvvisazione e sul padroneggiare le forme drammatiche di base del PT per realizzare il compito artistico di dare forma al significato della storia del narratore. Ma la sola arte non è sufficiente.

Il PT è anche un evento sociale interattivo, sostiene l’autrice, nel quale gran parte del tempo è focalizzato al di fuori palcoscenico (salutare il pubblico, introdurre la performance, legittimare le emozioni, far emergere le storie, salutare il narratore, e così via). Gestire un evento sociale interattivo richiede una gamma diversificata di competenze. Queste includono una buona progettazione e organizzazione, provvedere alla sistemazione di un corretto ambiente fisico, offrire ai presenti una possibilità di essere ascoltati e creare un’atmosfera di rispetto. Un buon PT deve rispettare tutti questi fattori di successo.

Jo Salas conclude che un buon PT risiede in una zona dove questi elementi diventano indistinguibili l’uno dall’altro. Questa per me è un’affermazione importante.

Generalmente i gruppi di PT sono orientati verso l’uno o l’altro versante: o provengono originariamente da un ambiente artistico e sono quindi più interessati agli aspetti teatrali, oppure hanno un background educativo e nel campo della salute mentale e sono perciò maggiormente interessati a quello che potremmo chiamare “laboratorio”.

Le persone che appartengono al primo ambito sono orientate a sviluppare maggiormente le abilità espressive, mentre quelle che appartengono al secondo sono più interessate al processo di gruppo. Talvolta questi diversi tipi di gruppi di PT si guardano persino criticamente l’un l’altro. Gli “artisti” sono insofferenti rispetto al processo; i “terapisti” disdegnano gli elementi teatrali. Questo atteggiamento di parte può far perdere il punto della questione.

Tutti i praticanti PT hanno bisogno di sviluppare capacità in entrambi i settori, al di là dei loro particolari interessi o intendimenti.

Sebbene quanto sopra descritto sia vero, c’è anche un terzo aspetto nella creazione di un buon PT che non è meno importante dell’interazione sociale: il rituale.

Creare un rituale richiede altre diverse abilità: l’emersione della dimensione transpersonale, il rispetto delle regole di conduzione; la creazione di un’energia emotiva estatica, l’uso di un linguaggio contenuto, ritmico e altamente specializzato; la tensione verso la meta della trasformazione.

Per gestire correttamente il rituale gli attori si concentrano sulla loro presenza sul palcoscenico. Essi si esercitano sul modo di ascoltare la storia, costruire la scena per poi onorarla.

Il conduttore impara a tenere e sostenere il processo rituale, non importa di quale tipo sia il narratore o la storia; impara a essere il guardiano della verità (alla ricerca della “storia profonda”), sapendo come modulare le regole del PT, quando è bene che siano osservate strettamente e quando invece è meglio che siano più morbide (vedi diagramma)

Un buon attore e un leader di PT devono essere abili in una triade di ruoli: artista, ospite che sa accogliere e sciamano.

Non sono compiti leggeri. E’ il motivo per cui diversi praticanti di PT hanno bisogno di formazione per anni.

Ci sono diverse situazioni in cui i requisiti di questi tre ruoli sembrano porre gli attori di fronte ad esigenze opposte

L’arte del PT favorisce una distanza estetica, mentre il rituale richiede coinvolgimento. L’aspetto dell’interazione sociale favorisce rilassamento e contatto informale, il rituale richiede intensità transpersonale.

E’ un obiettivo degli artisti divertire e intrattenere il pubblico; l’ospite infonde fiducia e mette la gente a proprio agio; lo sciamano instaura un’atmosfera di incanto, forse anche di confusione, come un trampolino per lanciarsi verso ciò che viene chiamato “l’altro pensiero”.

A questo punto si pone una domanda: come si può impostare l’apertura di una performance?

Qualcosa di divertente, o di artistico, o di drammatico? Una chiara spiegazione di quello che succederà, seguita da un’introduzione (funzione socialmente interattiva)? O un discorso con parole lente e ritmiche, con accompagnamento musicale, che potrebbe anche sembrare non aver senso (funzione sciamanica)?

Chiaramente i praticanti di PT non hanno solo bisogno di possedere abilità nei tre ruoli sopra citati, ma devono anche saper fondere gli elementi diversi in modo efficace.

Spesso infatti un’apertura di performance, sebbene possa tendere dall’una o dall’altra parte, assolverà a degli scopi in ognuno dei tre ambiti.

Se pensiamo al rito come facente parte della triade sulla quale si fonda l’esperienza PT, occorre fare alcune considerazioni per i partecipanti. Vorrei menzionarne alcune.

In primo luogo, nonostante il processo del PT sia spontaneo, il rituale ha le sue regole: il narratore deve andare alla sua sedia; il narratore deve stare seduto durante la rappresentazione; il narratore deve narrare una storia personale; gli attori si alzano quando il narratore sceglie un ruolo; gli attori non parlano durante l’intervista; il conduttore non interrompe la rappresentazione; il conduttore chiede il riscontro al narratore dopo la rappresentazione; il conduttore invita il narratore a lasciare la sedia dopo la rappresentazione. Queste sono alcune delle regole.

Senza la chiara cornice fornita dalle regole, la spontaneità può facilmente trasformarsi in caos e la creatività diventare confusione. All’interno di essa, gli spettatori si sentono abbastanza sicuri per lasciarsi andare verso la trance che permette all’imprevisto di erompere.

I bisogni di rituale nel PT vanno al di là delle differenze tra diversi tipi di gruppo, sia che operino a livello professionale o che siano a carattere più intimo e che lavorino con piccoli gruppi. Vanno anche oltre le differenze nella dimensione del pubblico: bisogna porre la stessa attenzione al rituale sia con un gruppo di quattro persone (conduttore, musicista, narratore e spettatore)  sia con un gruppo di 400 persone.

A causa della loro intensità, i rituali richiedono molto ai loro sciamani ed è essenziale che essi si prendano il tempo necessario per prepararsi ad assumere il ruolo richiesto e successivamente a lasciarlo.

I gruppi artistici” talvolta sbagliano nel adeguarsi agli schemi del teatro professionale dedicando poco tempo al un riscaldamento e ripartendo subito appena terminato lo spettacolo. Per contro i gruppi maggiormente orientati al processo di gruppo talvolta sbagliano nell’utilizzare il momento del feedback per “fare una discussione”.

Il rituale richiede comunque uno specifico tipo di riscaldamento e di raffreddamento” Dopo aver condotto una performance di Playback di PT a volte mi occorrono più di 24 ore per tornare a quello che potremmo considerare un “normale stato dell’essere”. Posso testimoniare di essere stato in una condizione di disorientamento per più di due giorni dopo un’esperienza di conduzione.

L’idea del PT come servizio ha il suo “locus” nella funzione rituale. Sebbene l’artista e lo sciamano condividano certe caratteristiche (per esempio, entrambi spesso si sentono predestinati a questo ruolo), c’è una fondamentale differenza fra loro.

L’aspirazione principale dell’artista è la creazione artistica, e la  conseguente richiesta di legittimazione della propria visione , mentre lo sciamano è focalizzato sull’altro. In una performance di PT, quando questi ruoli sono in apparente conflitto, per esempio quando l’integrità artistica di uno spettacolo viene minacciata da un narratore che ha un modo di esprimersi lento e inframmezzato da pause, non c’è dubbio che il modo sciamanico debba  essere preferito.

Non sono in scena come conduttore e come attore per sembrare brillante o, comunque per creare arte al solo fine artistico, né lo sono gli attori. Siamo lì per guidare un processo, quello stesso che ha ispirato una data persona a farsi avanti e raccontare la sua storia.

E’ nostra responsabilità accogliere pienamente il narratore e accettare la sfida di creare un’atmosfera di profonda attenzione nel pubblico. Nel PT questa è una situazione comune e tipica che, specialmente quando il rituale è sostenuto in modo forte, consente alle persone riservate di sentirsi abbastanza sicure per farsi avanti.

Il PT si fonda sul rituale e questo può spiegare il fatto che può fiorire in culture diverse con tradizioni sociali e artistiche differenti. I modi per riscaldarsi possono differire in giro per il mondo, e anche gli attori possono avere stili molto diversi,ma il rituale è costante.

Il rituale procura  sicurezza e, paradossalmente, potere.

 

 

Storie di vita e di morte

 

Gli attori con una esperienza modesta si lamentano quando un evento risulta spento. “Le storie non erano profonde” – dicono. “Ci sono stati solo aneddoti”.

Si può sperare che, col tempo,  impareranno a cogliere l’aspetto archetipico contenuto in ogni storia, anche quella che può sembrare la più banale.

Più frequentemente di quanto si possa credere, tuttavia, la successione delle storie nel PT contiene una notevole profondità ma anche molto humour, così che alla fine anche gli attori più superficiali si sentono soddisfatti perché qualcosa di buono è emerso dal nulla.

Tuttavia, occasionalmente, vengono raccontate quelle che possiamo definire “storie di vita e di morte” e che, per qualcuno, costituiscono un’esperienza fondamentale. Qui il rituale è molto importante.

In questi momenti l’emozione del rischio è palpabile; si percepisce il timore che il narratore possa sfuggire di mano o che un senso di caos possa invadere tutti.

Per portare un esempio vorrei citare Deborah Pearsons, una praticante di PT australiana che ha viaggiato molto.

Deborah riporta un’esperienza come conduttrice di una performance di PB in Finlandia durante la quale i bambini ai quali era rivolto l’evento avevano avuto da pochi minuti la notizia della morte di un loro compagno più grande in un incidente d’auto.

Se pensiamo al PT come intrattenimento o come intervento educativo,  potremmo sostenere che quello non era il momento giusto per affrontare quel tema. Meglio sospendere il tutto e lasciare che la comunità scolastica si confrontasse meglio che poteva con lo shock e il dolore.

Se invece consideriamo il PT come un rituale di cura, forse è proprio questo il “momento giusto”, con un’importante precauzione. E’ fondamentale che la compagnia e, in particolare, il conduttore siano in grado di contenere l’emozione del pubblico e di fornire uno spazio protetto per l’elaborazione del lutto.

Molti attori di PT sono consapevoli di non essere ancora pronti per contenere eventi così forti, e sebbene posseggano abilità artistiche e di interazione sociale, sanno tirarsi indietro quando occorre. E se gli attori si domandano come mai nelle loro performance non emergano storie più profonde proposte dal pubblico, è semplicemente perché il pubblico sente che gli attori non sono pronti a reggerle.

In questo caso particolare, Deborah e il suo gruppo di attori finlandesi, in risposta al bisogno di un rituale di cura per la comunità, non si sono ritirati di fronte alla crisi, ma sono andati avanti con la performance, pronti a rappresentare qualunque difficile sentimento chiunque avesse avuto la necessità di raccontare.

Il giovane pubblico ha accolto l’offerta degli attori di PT.  I ragazzi hanno parlato dei loro sentimenti e li hanno visti rappresentati. Ci sono state due storie narrate e messe in scena. Il rituale si è compiuto. Dopo la performance Deborah ha scritto:

“Ho notato che le teste non erano reclinate verso il basso mentre lasciavano la stanza e che c’era più energia. Molti di loro hanno versato qualche lacrima durante la performance. Molti di loro si sono stretti agli altri sedendosi più vicini.

Ho sentito che avevamo colto il momento giusto per prenderci cura di loro, per poter avere più forza per stare col loro dolore nei giorni successivi e nei mesi a venire.”.

C’è un altro importante aspetto riguardo alla funzione contenitiva del rituale nel PT.

Nell’eccitazione del momento spontaneo, i membri del pubblico possono non rispettare le “regole del gioco”.  Uno si alza e critica la storia, un altro vuole saltare sul palcoscenico, un terzo viene alla sedia del narratore e cerca di manipolare il gruppo di PT. A questo punto il conduttore deve intervenire con fermezza e decisione, sapendo quando essere permissivo e quando osservare rigorosamente le regole.

Per assumere questo ruolo non bastano il sapere e l’esperienza ma occorrono anche forza personale e saggezza.

 

 

Conduzione sciamanica

 

Un ultimo punto: è importante osservare che in merito al dialogo che prende forma e alla vitalità che viene incoraggiata, i conduttori del rituale non devono solo contenere il pubblico ma anche guidarlo.

Un gruppo forte e coeso, costituito da individualità autonome, richiede poca guida. I partecipanti creeranno il discorso di cui hanno bisogno e troveranno le loro proprie risorse di vitalità durante il corso dell’evento. Ma nella realtà pochi gruppi sono così maturi. Spesso sono presenti individui problematici, come colui che (solitamente è un uomo) ha molti commenti da fare, molte emozioni da comunicare, molte storie da raccontare. Talvolta è l’intero gruppo che soffre per un’opinione o un atteggiamento che ostacola l’instaurarsi dell’esperienza rituale. Per esempio, le persone possono temere le emozioni oppure possono sentire che le storie hanno un valore solo se hanno un lieto fine. Spesso prevalgono visioni univoche della società che possono bloccare il processo. Un esempio può essere la riluttanza a farsi avanti e parlare da parte di coloro che si considerano sempre emarginati dalla maggioranza, come un immigrato, una persona di colore o una persona molto anziana.

In queste situazioni, i “performer” di PT devono avere sia il coraggio che la saggezza nel fronteggiare tali difficoltà. Per esempio, contrariamente all’enunciato comune nel PT che dice: “Ognuno può essere narratore”, il conduttore deve saper gestire (controllare) colui che tende a narrare troppo, in modo da lasciare spazio agli altri.

La compagnia deve usare tutta la sua abilità artistica e umanità necessari agli specialisti nel teatro d’improvvisazione e negli eventi sociali interattivi, per affascinare e eventualmente disarmare ogni tipo di gruppo e condurlo verso un’apertura alle emozioni.

I “performer” devono inoltre saper resistere al bisogno di trovare soluzioni , sicuri che all’interno del processo rituale ci sarà  una proposta di trasformazione. E’ molto importante che essi posseggano un fiuto acuto per il pregiudizio e l’ingiustizia che spesso affiorano sia dal silenzio di coloro che tacciono sia dalla bocca di coloro che parlano. Il rituale richiede tutto ciò.

E’ un luogo comune nella pratica del PT che il conduttore e i gli attori debbano essere “supportivi” con il narratore. Questa idea della funzione supportiva dei “performer” può essere illustrata riportando un caso di pregiudizio sociale.

Per contrastare un’atmosfera di formale cortesia, o per accettare una dichiarazione di pregiudizio o una storia su questo tema, il team deve essere fortemente fedele all’idea di equità sociale. Ciò comporterà supportare sia le persone più riservate e vulnerabili con un atteggiamento di fermezza verso coloro che esprimono una visione pregiudizievole. Questo non significa rifiutare le diffamazioni ma piuttosto insistere su ciò che è necessario per  far sì che il rituale continui ad essere  costruttivo.

Durante una performance estiva in un campus universitario americano, il conduttore aveva creato un contatto immediato con un gruppo di adolescenti afro-amenricani, che erano arrivati insieme che si stavano chiedendo dove erano finiti. Normalmente si riterrebbe poco opportuno far emergere uno specifico gruppo all’interno del pubblico, ma in questo caso cercare il contatto è stato ritenuto preferibile al silenzio e al modello dell’isolamento e dell’alienazione (“Questi giovani neri potrebbero causare problemi, è meglio ignorarli e comunque: cosa ci fanno qui?”).

Quando uno di loro disse che facevano parte di un programma di lavoro estivo, il conduttore, per introdurre una scultura fluida, chiese loro come stesse andando. A questo punto il loro formatore li interruppe dicendo che stava andando “meravigliosamente”.

Accettando questa risposta, il conduttore la consegnò agli attori ed essi rappresentarono questo “meraviglioso” secondo il punto di vista del formatore. Ma era importante non concludere così, con l’adulto che aveva risposto per il giovane. Così il conduttore ripeté la domanda dicendo: “Sentiamo ora cosa dice un partecipante di questo programma”.

Il rischio qui, a livello artistico, poteva essere che gli attori ripetessero la rappresentazione del “meraviglioso” e l’improvvisazione sarebbe stata noiosa. A livello sociale il rischio poteva essere che nessuno dei giovani volesse parlare in pubblico del suo vissuto. Ciò che successe fu che un ragazzo si espresse. Disse qualcosa di interessante e pieno di emozioni, che gli attori a loro volta interpretarono e resero come uno dei momenti più alti della performance.

L’assertività del conduttore era stata ripagata. E il pregiudizio relativo ai diritti degli adulti sui giovani non era stato assecondato.

Un altro esempio dello sciamano come guida ebbe luogo durante il workshop di “Cambiamento sociale” citato all’inizio di questo scritto. Per ricapitolare la situazione: c’erano state due storie narrate da spettatori bianchi sul ruolo che avevano avuto i neri durante la loro infanzia;  entrambi i narratori avevano espresso l’imbarazzo di essere stati testimoni di un pregiudizio. Il tema era forte. Indubbiamente molti dei bianchi presenti avrebbero voluto farsi avanti con storie che avrebbero potuto attenuare il loro senso di colpa. A questo punto, comunque, io intervenni deliberatamente per chiedere una storia ad uno dei due afro-americani presenti. Questo intervento era in contrasto con il principio del PT finora sostenuto, secondo il quale bisogna accogliere storie da chiunque in qualsiasi momento.

La richiesta presentava senza dubbio dei rischi. Era evidente la possibilità che le due persone interpellate si rifiutassero di raccontare. Ma l’alternativa era ancora più rischiosa: ripetere un endemico modello di comportamento che dà voce ai bianchi e non ai cittadini neri.

Per questo motivo quel tipo di conduzione era stata fondamentale. In quella performance uno dei due afro-americani prese la parola e narrò. Il discorso continuò in una direzione costruttiva  attraverso l’ascolto delle diverse voci e la vitalità poté esprimersi.

Conclusioni

 

Per la seconda performance della nostra sprovveduta compagnia, più di vent’anni fa, ci preparammo a fare una visita ad un reparto di bambini ricoverati in un ospedale.

L’équipe dell’ospedale ci permise di entrare, perché spesso accettavano volontari di ogni sorta e ai loro occhi avremmo offerto ai bambini un semplice intrattenimento.

Non avevano idea del potere rituale del nostro intervento.

Noi indossavamo per lo più abiti da clown, cantavamo canzoni per bambini, eravamo buffi e disarmanti. Inoltre, siccome il nostro scopo era qualcosa di più del divertimento, avevamo insistito per fare la performance durante l’orario di visita perché volevamo che i genitori fossero presenti.

Tenemmo fede al nostro modo di invitare i narratori individualmente, anche se il lettino del bambino narratore doveva essere spostato in avanti per consentire a tutti di vedere e ascoltare. Rappresentammo così le storie dei bambini, dei genitori e persino del personale del reparto.

Due ricordi di quel giorno mi tornano alla memoria.

Il primo è che i bambini parlarono di aspetti che ci si rese conto non sarebbero potuti emergere in una conversazione ordinaria, come la preoccupazione dell’attesa prima di un’operazione. Il secondo è che l’esperienza aveva trasformato l’atmosfera del reparto: prima della nostra performance i bambini erano apatici e i genitori preoccupati dietro i loro sorrisi di conforto. Ma dopo la conversazione fu appassionata e prevalse uno stato d’animo più luminoso che oserei quasi chiamare di gioia.

Era solamente la nostra seconda performance, avevamo difficoltà a capire cosa stavamo facendo ma già si poteva intuire il potere del processo rituale nel PT.

Arrivavo al PT dalla ricerca del teatro sperimentale nel periodo che seguiva la guerra in Vietnam. Pensavo a me stesso come ad un artista di teatro. Nel corso dello sviluppo del PT ho studiato psicodramma per acquisire competenze  sui processi di gruppo necessarie per condurre eventi sociali interattivi, riconoscendo come l’arte e l’interazione sociale devono essere abilmente miscelate nel lavoro del PT. Senza che me ne sia pienamente reso conto, mi sono impegnato per spiegare alla mia compagnia, agli studenti e a me stesso le questioni legate al rituale.

E’ la componente rituale che ci conduce verso il cuore del PT e che ci aiuta a sentirci nuovamente vitali. Ed è questa componente rituale che favorisce il tipo di dialogo necessario per la trasformazione di un ordine sociale disfunzionale o obsoleto.

Tutto questo avviene attraverso le nostre storie.

Avviene attraverso la danza, le immagini e la musica.

Ed avviene perché dei cittadini attori sono disposti ad imparare una stimolante forma d’arte al servizio della loro comunità.

            

 

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